mercoledì 29 giugno 2016

Mile 97: SDW 100 race report



Miglio 97 o giù di lì. Willingdon Hill, questo è il nome di questo enorme terrazzo che sovrasta la cittadina di Eastbourne.

Sul South Downs Way però, anzi...alla South Downs Way, questo punto è meglio conosciuto come the trigger point.

E insomma, sarà perchè proprio un trigger di pietra ne segna il culmine, sarà perchè da qui in poi si lascia il South Downs Way per puntare verso Eastbourne, sarà che qui non solo senti l’ odore del fienile (cit. AJW) ma il fienile laggiù lo vedi proprio, sarà per questo e molto altro, fatto sta che qui capisci che ci sei. Che è il momento. Che è QUEL momento.

Oggi  non si vede il mare. E anche Eastbourne appare ancora avvolta da un silenzio quasi notturno. Intorno a noi c’è una sorta di nebbiolina fine, e tutta la collina appare immersa in una luce ovattata, quasi a dirti che oggi il Sole per noi sarà solo un pensiero, per alcuni una speranza, per altri una illusione.

Sono le 5 del mattino passate da poco. Accarezzo con lo sguardo il trigger mentre vi passo vicino. Un saluto veloce all’ eroico volontario incappucciato e intabarrato che si è fatto una notte intera quassù, passando ore a dire le stesse due frasi: follow the markers, the second left, down in the gully....

Le ripete anche a noi. Io però ho già corso qui. Io conosco quelle indicazioni. Non ne ho bisogno.

Guardo ancora una volta l’ orologio. Sì, è proprio così, QUEL momento è arrivato. Luigi imbocca per primo lo stretto ed erbosissimo sentiero, e a me in quel momento viene solo da urlare: “GAS LU’! GAAASSS!”

Quello che segue è un racconto, un race report, un diario e chissà cos’ altro della mia avventura alla South Dows Way 100 Miles, edizione 2016.

Dove tutto è iniziato...

Ecco, già qui vado subito in difficoltà. Perchè davvero mi risulta difficile immaginare un momento preciso nel quale ho pensato “sì, ok, mi iscrivo alla SDW100”. Perchè allora dovrei mettermi a raccontare per la millesima volta di quando sono venuto qui la prima volta da bambino, o ancora di quando l’ anno scorso ho corso per la prima volta la SDW50, la “sorella minore” del 100miler e che  di fatto ne ripercorre la seconda metà, esperienza poi ripetuta questa Primavera.

In estrema sintesi insomma, io e questa favolosa pista, lunga esattamente 100 miglia e che si snoda da Winchester (Surrey) a Eastbourne (Sussex) all’ interno di un enorme Parco Naturale che ne prende anche il nome, ci siamo trovati da subito. E se poi si aggiungono la possibilità di farsi qualche giorno di vacanza in questi posti fantastici, la running culture inglese espressa al meglio dai ragazzi di Centurion Running guidati da James Elson, e la compagnia sul sentiero di tanta bella gente con la quale nel tempo si sono costruite anche delle belle amicizie, ecco che la scelta per la mia prima 100 miglia non poteva che cadere sulla SDW100.

Pensandoci un attimo, probabilmente avrò anche già scritto questa pappardella della running culture e della bellezza del South Downs Way, me ne scuso in anticipo. 

100 miglia, dicevo. La Distanza, con la D maiuscolissima (sì, anche questo devo averlo già scritto). Come si fa però a non desiderare una distanza così? Se ci penso, dentro c’è veramente tutto. Limite, strategia, endurance, avventura, crisi, viaggio, piedi cotti e gambe dure, lacrime e risate...sì insomma, decisamente my cup of tea.

Così a Luglio 2015, appena aperte le iscrizioni, mi sono infilato subito in entry list. Quasi un anno di anticipazione se ci penso, e che allora in effetti mi sembrava un tempo lunghissimo, ma che poi tutto sommato è volato via abbastanza velocemente.

Però riflettendoci a mente fredda, tutto questo anticipo all’inizio poteva anche costarmi caro in termini di serenità e di lucidità, esattamente nel momento in cui ho iniziato a pensare a come allenarmi per una cosa del genere.

Era Ottobre più o meno, e già volevo puntare la SDW100 deciso, pur se la data dell’evento distava ancora qualcosa tipo 8 mesi. Mi inchiavavo in fogli e appunti vari, estenuanti letture e discussioni varie con gli amici (siano benedetti perchè non mi hanno – ancora – mandato a quel paese), calcoli e controcalcoli. Stavo diventando insomma un (m)athlete (cit. Gary Robbins) e mi preparavo ad essere la vittima del classico caso di overthinking.

Poi un paio di acciacchi patiti nelle mie corse del weekend (a posteriori credo dovuti più che altro all’usura di alcuni materiali – leggi “scarpe” – che a un effettivo sovraccarico) mi hanno definitivamente convinto a levare il piede dall’ accelleratore, a rilassarmi, a “sedermi” (sit back nel senso anglosassone del termine) e a godermi il mio percorso di allenamento verso la SDW100.

Cavoli, si sarebbe trattato pur sempre della mia prima 100 miglia, e anche il solo allenamento sarebbe stato lungo, intenso, pieno di storie e momenti da ricordare. E io avevo fame, fame di questi momenti appunto.

Così Autunno e Inverno sono passati via veloci, e presto è cominciata la stagione dell’ anno che preferisco...quel mese e mezzo tra Aprile e Maggio, in cui le giornate si allungano, i prati fioriscono, la foresta si veste del suo verde accecante, le gambe iniziano a girare e la testa va alla ricerca della lunghezza d’onda giusta, della concentrazione necessaria. Ma insomma, della mia Primavera ho davvero già scritto in questo blog e non mi ci dilungo ancora inutilmente.

Arriva così finalmente il giorno della partenza per l’ Inghilterra, il Sabato prima della gara. Tutto impacchettato alla solita maniera (alla ca..o di cane con un po’ di logistica tedesca integrata), borsoni carichi di gel e scarpe, speranze e calzini Injinji, desideri e tutto il possibile outfit che mi era venuto in mente nel frattempo, con in più stavolta la MTB di Ari (che approfitterà del tempo bello per farsi qualche pedalata sul SDW), e si parte per i soliti 1000 km di macchina, notturni anche stavolta.

Race week....

Una delle cose che preferisco di quando saliamo in Inghilterra, è che cerchiamo di assicurarci di poter arrivare più o meno una settimana prima della gara. Serve a me per cominciare ad entrare in the game e a farmi magari un paio di shakeout runs, e a entrambi per goderci un po’ di campagna inglese, con qualche gita nei dintorni (questa volta abbiamo scelto Chichester come destinazione culturale), il tutto reso ancora più bello dal poter stare ancora una volta nel nostro cottage di fiducia, in una splendida fattoria nei dintorni di Worthing, a due passi dal South Downs Way. I ragazzi che la gestiscono sono diventati col tempo buoni amici, e la promessa è di creare presto le condizioni per una loro visita qui dalle nostre parti.

Insomma, le condizioni perfette per arrivare al weekend fatidico carico al punto giusto, tranquillo e determinato.

Al Venerdì pomeriggio (12 ore allo start) puntiamo così la prua verso Winchester, dove staremo la notte pre-gara e quella post-gara (quella in mezzo...beh, spero di passarla proprio sul SDW...). Infatti con Ari abbiamo deciso di non stressarci assolutamente, tantomeno voglio mettermi a guidare io 100 km dopo aver eventualmente finito una 100 miglia. Facciamo quindi le cose con la massima calma, che per far fatica avrò poi tempo un giorno intero.

Race day...

Ci siamo ormai. La sveglia dovrebbe suonare alle 3:30...dico “dovrebbe”, perchè in realtà sono già sveglio da almeno un’ ora. Anzi facciamo così, stanotte non ho proprio dormito. Era prevedibile tutto sommato. 

Come ho scritto in un precedente post, arrivando al giorno della gara non ho mai sentito realmente quelle ansie da prestazione o paure di chissà che cosa di cui molto spesso si parla alla vigilia di una 100 miglia. Mi sono sentito sempre a posto, dormito e mangiato il giusto, e desideroso di correre, finalmente. Ecco appunto, tutto questo però non ha potuto negarmi una normale carica di adrenalina, un po’ da “primo giorno di scuola” in effetti. Io, in mezzo ai “ragazzi grandi”, con davanti un viaggio incredibile: non vedevo l’ ora!

Così mi produco nei miei soliti rituali pre-gara. Doccia e faccende varie, e poi una colazione abbastanza semplice: biscotti e marmellata recuperati alla drogheria del paese prima di venire a Winchester, innaffiati di un earl grey nero come il petrolio, che bevo solo prima di una ultra. Perfetto.

3 km di auto e siamo già al Chilcomb Hill Sports Ground (anzi, c’eravamo già stati il pomeriggio prima per prendere il bib number e avere il check del materiale obbligatorio).

Appena sceso dall’auto, chissà perchè mi viene da fissare l’attenzione sul fatto che ho parcheggiato esattamente sotto un lampione che sembra stia per venire giù da un momento all’ altro. E così trascorro la successiva mezz’ora a guardare questo lampione in maniera quasi ossessiva, il tutto a poco più di un’ ora dalla partenza di una 100 miglia.

Fin quando un volontario non viene verso di me e con la solita enorme gentilezza mi dice che si era sbagliato a farmi parcheggiare lì, e che il posto giusto per chi poi lascerà lì l’ auto fino alla Domenica pomeriggio è più avanti, direttamente sul prato.

E così mentre mi faccio questa brevissima guida fino al posto giusto, mi viene da ridere al pensiero di quanto sono stupido: tutti la fuori pronti a scaldarsi, game faces, ansiosi, in coda al bagno di plastica, e io?...a guardare un cazzo di lampione. Potere della mente e dei suoi giochetti in effetti...ma meglio così. Ora così posso solo pensare a vestirmi e a preparare lo zainetto, e poi ci sarà solo più da correre.


La tensione sale...


Un abbraccio ad Ari (che mi aspetterà poi ad Eastbourne, dopo aver passato la notte in un bell' alberghetto con vista sulla spiaggia), ed è tempo di infilarmi nel griglione generale sotto al materasso di partenza. 

All' inizio di una 100 potreste avere una faccia così....

 Solito, conciso, very british race briefing (“collina Afrilston troppo grande, notte, marcata il giusto, pascolo, trigger, Eastbourne”), premo il pulsante del cronometro (stavolta niente Garmin, niente GPS track, niente indicazioni di distanza percorsa o passo al chilometro o consumo calorico, solo un normale orologio da polso con funzione cronometro appunto), e si parte.

E come per incanto mi accorgo che, mentre muovo i primissimi passi sul pratone del Chilcomb Ground, vengo investito da un incredibile mix di sensazioni, tutte ovviamente super positive, ma in particolare da un sentimento di enorme, desiderato, intenso sollievo. Tra me e me penso “ecco, finalmente questi mesi di allenamento, di aspettative, l’ Inverno sui sentieri ghiacciati e la Primavera in mezzo alla Foresta in fiore...tutto ciò si riunisce ora in un singolo momento, intenso eppure effimero. E mi sento leggero come forse mai prima, sereno, pronto a iniziare un’ avventura fantastica. Non c’è veramente altro posto al mondo nel quale vorrei essere.

Ecco, poi ovviamente c’è il lato prettamente “agonistico” di questa partenza...Mentre infatti come al solito mi lascio sfilare praticamente da tutti fino a trovarmi in ultimissima posizione, noto che in molti invece partono belli decisi, e capisco quasi subito il motivo; per uscire dallo Sports Ground e infilarci a tutti gli effetti sul SDW che costeggia questa collina, ci sono due ingorghi terrificanti, e insomma, fatto sta che per percorrere 400 metri scarsi se ne sono andati quasi 8 minuti.

Pazienza mi dico...oggi si corre solo a sensazione (ecco perchè non ho voluto avere al polso il Garmin). Si va in relax e ci si cura solo di mangiare e bere regolarmente. E ci si gode la giornata. Il resto verrà più avanti semmai.

Le prime miglia così scorrono via leggere. L’aria del mattino (siamo partiti alle 6 am) è fresca, c’è una pioggerellina leggera che da quella giusta carica e la temperatura è perfetta, insomma le condizioni ideali per correre.

Alla prima salita affianco Tim Mahoney, con il quale ho corso il tratto di Peycombe alla SDW50 e che poi ho incontrato ancora al trigger point in quella stessa giornata. Ci riconosciamo subito, siamo entrambi alla prima 100 miglia. Incoraggiamenti reciproci e si tira avanti (entrambi non lo sappiamo ancora, ma ci incontreremo spesso in questo viaggio...).

Attraversiamo così alcune fattorie (con tanto di galline che corrono ovunque, forse spaventate da queste strane bestie vestitissime e coloratissime che irrompono nella quiete di un tipico Sabato mattina inglese) e qualche breve tratto di bosco, e mentre mi godo questa versione di SDW decisamente più scorrevole rispetto a quella che conosco io – le colline vere arrivano in effetti nella seconda parte, o quasi... – mi accorgo di star compiendo un gesto quasi automatico...ogni tanto, mentre corro, accarezzo i fiori.

Sì, detta così sembra una roba da fricchettoni anni ’70 in effetti. In realtà, con la mano destra, a spalle e braccia ancora sciolte e rilassate, ogni tanto vado a cercare le piante a bordo sentiero, senza perdere minimamente passo e fluidità di corsa.

E’ una cosa che ogni tanto faccio anche in allenamento. Mi serve a cercare tranquillità (anzi, mettiamola così: è il segnale che sono in uno stato di tranquillità), a darmi una sorta di “ritmo mentale”, e a entrare in contatto il più possibile con l’ ambiente che mi circonda. Ancora una volta un giochetto della mente probabilmente, ma decisamente utile, specie quando vedo che alcuni sono o già scoppiatissimi, o in preda a dubbi clamorosi di percorso, con markers e frecce chiarissimi proprio davanti al naso (sintomo questo di ansia e overthinking).

La verità – fricchettonerie a parte – e che in queste gare devi imparare a correre “con” il sentiero, e non “contro” di esso. A sentirlo non solo sotto i piedi, bensì anche intorno a te, verso di te. Se pensi invece di esserci in guerra, hai già perso in partenza.

Primi campi, primi boschi....e sì, ovviamente primi cancelli e cancelletti. 

Anche questi parte del paesaggio e della logica del SDW, perfetti per staccare un attimo dalla corsa continua, muovere anche la parte superiore del corpo, e soprattutto fare due parole di ringraziamento con il runner prima di te che ti sta tenendo il cancelletto aperto, o con quello dopo di te al quale sei tu a tenere aperto il cancello. “Cheers mate”, “thanks bud”...frasi essenziali (tutti siamo in modalità risparmio energetico, e non serve mettersi lì a fare chiacchierate di ore) ma che fanno decisamente bene al morale. Senti insomma che si è tutti sulla stessa barca, ed è come se si cementasse un senso di solidarietà reciproca, pur immersi come siamo tutti in un clima di gara vera. Ma anche questo forse è magia di una 100, o no?

10 miglia passate, ed ecco che laggiù scorgo la prima Aid Station, Beacon Hill Beeches. 

La solita orgia di cose buone: frutta, jellies, coca cola e via così. Per me un paio di spicchi di mandarino e continuo. Le soft flasks sono ancora quasi piene (non fosse che da bravo genio ho pensato bene di usare oggi una soft flask nuova di zecca per l’acqua, senza lavarla prima, e così adesso avrò l’ acqua che sa di plastica per il resto della giornata....), e inoltre ho l’ abitudine di non fermarmi praticamente mai alla prima Aid Station di una qualsiasi ultra (almeno, così è stato finora).

Da qui in poi però inizia un tratto piuttosto lungo e vario, di quasi 13 miglia (20 km scarsi) prima della prossima Aid Station, quella del Queen Elizabeth Country Park. Quindi testa pronta, passo leggero e vediamo che succede.

La temperatura intanto sta cominciando a salire, e qualche sprazzo di Sole si intravede tra le nuvole. Non piove più, e questo significa che tra un po’ l’ aria comincerà ad appesantirsi di umidità. Non ci penso troppo però, e cerco il più possibile di ammorbidire il passo in un lungo tratto di asfalto (saranno 2 km malcontati, ma in una 100 miglia ogni singolo metro ha un’importanza potenzialmente decisiva), e lì davanti prima di un salitone vedo un bel pack di runners.

Non ho fretta di raggiungerli, anche perchè sto davvero facendo “la mia gara” nel senso stretto del termine, ma al tempo stesso penso che ci si senta sempre bene quando si riesce ad agganciare un gruppetto. Sembra che il tempo passi più veloce e poi insomma, un po’ di compagnia in queste prime miglia non fa male.

Ecco, però la compagnia dura poi poco: un po’ perchè alcuni hanno già ginocchia e quads andati (al miglio 15...un po’ presto in effetti, ma io ne so qualcosa dalla mia esperienza alla NDW50 dello scorso anno) e un po’ perchè in effetti, quando vado di power hiking, non mi tiene nessuno.

Mi sono allenato tanto in questo fondamentale. Avendo le gambe corte infatti, mi scordo di poter mangiare metri su metri con due passi facili. Quando corro devo quindi tenere un passo corto (i famosi 180 passi al minuto di scuola Jurekiana), e in salita cerco di stendermi nella camminata veloce. Questo mi aiuta a usare meglio schiena e glutei, a rilassare i quadricipiti, ad aprire la respirazione (grazie Marco Olmo) e a trovare un passo più efficiente; e l’ efficienza e la funzionalità della corsa sono pure fattori decisivi quanto si hanno davanti tante miglia.

Ma torniamo alla cronaca, che è meglio. Dicevo, in questo gruppo qualcuno è in effetti già un po’ appesantito nel passo, ma una signora (sulla 50ina abbondante, ma tirata come una pantera) attira di più la mia attenzione. Sta chiaramente zoppicando, e porta un fazzoletto stretto nella zona sopra il ginocchio. Ho già capito: IT Band.

Le passo vicino, con delicatezza le porgo un braccio intorno alla spalla e le dico qualcosa, un po’ per chiederle come sta e un po’ per farle coraggio. Cazzo, esattamente quello che mi ha fermato dopo 30 km in preda a un dolore incredibile alla Ulm 100k di 2 anni fa. E lei ha ancora 90 miglia davanti.

E’ francese, ma parla un inglese perfetto. Mento, e le dico che la Aid Station non è molto lontana (in realtà non lo so nemmeno io dove si trova...non ho idea di niente, nè di quante miglia ho percorso finora, nè di quante ne mancano a questa o quella Aid...infatti nello scrivere questo report mi sto servendo del sito Centurion e della cartina Harvey).

Lei si fa forza e mi chiede se mi sto per caso allenando per qualcosa...”Certo che no” rispondo, “è la mia prima 100 miglia, non certo una training race”. E lei candidamente mi dice “è perchè sembri così tranquillo – “you look so serene...”-. Tranquilla amica mia, è perchè è ancora mattina. Tra 24 ore ti dico poi se sono ancora così rilassato e fresco.

Così la lascio lì a camminare, e le dico però ancora una cosa: “Voglio vederti al traguardo di Eastbourne, promettimelo”. Sorride, mi volto e continuo.

In effetti questa Aid 2 non arriva mai. Il QECP è davvero bello, grande e molto verde, e incontriamo già i primi escursionisti.

E finalmente eccola lì, la Aid Station: un brulicare di volontari e famiglie (è anche un crew point) proprio nel mezzo di questo parco. Ecco, qui però non prendo solo due spicchi di mandarino. Mi fermo per il primo refill delle soft flasks, e approfitto per una dentata di pomodorini pachino (noto con dispiacere che l’ anguria è già finita – pazienza, colpa mia che sono arrivato tardi).

Un minuto al massimo e riparto (altra strategia che cerco sempre di adottare: alle Aid Stations ci si ferma il minimo indispensabile...ecco, pure di questo parlerò ancora più avanti...).   

Ed ecco che arriva anche il primo salitone di una certa rilevanza: accorcio il passo il più possibile e cerco un buon ritmo, senza stringere troppo il respiro. La sfango abbastanza facilmente, ma mi dico che forse ora è il caso di cominciare ad accarezzare meno fiori e a tenere la testa un attimo sul pezzo. La giornata è appena cominciata, e più avanti mi aspettano i mostri di Housedean e Southease. Quindi risparmio massimo su queste salitine spaccagambe, e pacing lucido nei tratti di maggior scorrimento.

“Fuck, you have fucking 4-wheel drive maaaannn”; una roba del genere, condita di accento neozelandese (non esattamente Windsor), me la sento urlare da un pezzo d’omone che supero su una breve rampa, e che mi aveva a sua volta superato poco prima su una discesa piuttosto ripida. “Yeah, but you have fucking shock absorbers sir!” gli rispondo io. Belli questi scambi tra gentlemen nel bel mezzo di una ultra in effetti, ma come dire...per la tea room ci sarà tempo un’ altra volta.

Miglio 27, Aid 3, Harting Downs. Merda, qui il caldo comincia a farsi sentire. Nelle ultime miglia ho seguito il mio amico Tim. Abbiamo corso attraverso un bosco piuttosto fitto, e le rampe e rampette non erano abbastanza lunghe da poterci camminare...quindi corsa continua e via andare.

La Aid Station però è un sollievo enorme. I volontari sono gentilissimi come al solito, e si offrono anche di inondarci il berretto e la testa con acqua fresca, il tutto mentre ci riempiono le soft flasks e noi abbiamo così mano libera per arraffare anguria e ananas come se non ci fosse un domani.

L’ acqua in testa mi rivitalizza subito, ed esco dalla Aid contentissimo e di nuovo a posto, sparando “you’re awesome” a raffica.

Mentre cammino per digerire l’intera scorta frutticola del Sud America, prendo il cellulare e mando il primo dei due sms di avviso al mio pacer Luigi. Ah giusto, Luigi.

Ebbene sì, oggi, oltre ad avere la grande fortuna di essere qui a correre questa splendida gara, avrò anche il culo micidiale di avere un pacer, e che pacer, tutto per me, che mi aspetta secondo accordi intorno al miglio 72 (al crew point di Ditchling Beacon). 

Mi ha solo chiesto di mandargli un paio di messaggi quando passo da Aid 3 e 4, in modo che possa regolarsi con i trasporti e tutto il resto. All’inizio ero un po’ restio all’idea di dover stare lì con il cellulare acceso in gara, ma poi mi sono detto: “Don’t be an ass, il ragazzo viene apposta per stare insieme a te in piena notte in mezzo a chissà dove”. E magari starà in mezzo al nulla ad aspettarmi per ore. Direi che due sms ci possono anche stare.

Sulla collina successiva procedo finalmente di nuovo di power hiking. Stacco facilmente Tim e supero ancora un paio di runners. Apro un cancelletto, e mi infilo in un vialetto asfaltato immerso in un bel bosco ombroso.

Vado avanti 5, 8, 10 minuti...finchè non mi accorgo di due cose: la prima: non vedo markers da un po’. La seconda: dove cavolo sono finiti Tim e i tizi che ho superato poco prima del cancelletto? Con me in effetti solo un altro runner, che mi ha seguito in questi minuti di nulla. Public Bridleway da una parte, villetta dall’ altra.

Cazzo, non è possibile. Ho sbagliato strada.

Io, che mi vanto di controllare sempre la navigazione e i markers, e la storia del correre “con” il sentiero e le fricchiettonerie varie...da bravo pirla ho sbagliato strada.

Così comincia a salirmi una sorta di incazzatura interna, mentre corro nel senso opposto questo cazzo di vialetto. Arrivo di nuovo al cancelletto, e mentre lo apro vedo proprio alla mia destra (a sinistra nel senso di marcia della corsa) la curva forse meglio segnata e marcata della storia.

Così adesso entro in modalità assassina e inizio a macinare deciso, riprendendo subito alcuni runners (per un qualche motivo sono incazzato col povero Tim: merda, quando gli altri stanno per sbagliare strada io sono sempre lì ad avvisare, un cazzo di urlo me lo potevi fare tu stavolta visto che mi eri attaccato al culo). Fuck, avrò perso 20 minuti per questo banalissimo errore...

Ma ecco che presto l’ incazzatura svanisce, e sulla mia faccia si dipinge un sorriso da ebete (impressionante come sia facile andare su e giù emotivamente durante una gara così). Sì, ho cannato l’incrocio meglio segnato di tutto il SDW, ma chissenefrega tutto sommato. Fa parte del gioco, e io in gioco ci sono ancora, dalla testa ai piedi.

Arriviamo intanto giù sulla Aid 4, Cocking, miglio 35 circa. 

No, c’è qualcosa che non va. Questa ultima discesa l’ho patita un po’ troppo, e ho alternato corsetta leggera a fasi di cammino. Il sentiero è molto sconnesso e secco, non fai un passo uguale all’ altro, e il fondo di gesso del South Downs Way sta creando un forte effetto specchio sotto i nostri piedi (un po’ come quando il Sole batte sulla neve). Insomma, stiamo cominciando a cuocere.

Prima della Aid poi faccio un errore banalissimo. Svuoto la flask con i sali, convinto che lì ne abbiano già pronti dei nuovi, freschi e saporiti. Nulla, solo queste cavolo di pillole, che proprio non sopporto.

Niente panico però, dietro ho un tubetto di Gu Brew per ogni evenienza. Mi ingozzo di nuovo di anguria, e riparto (e secondo sms a Luigi).

Sulla salita successiva cammino tanto, e fatico a ritrovare la corsa leggera e fresca della mattina. Mi sto appesantendo, e più tardi da lucido capirò che ci sono stati alcuni fattori determinanti in questo senso: 

Primo, l’ essersi ingozzato di anguria al ristoro. E’ il miglior cibo per le ultra, ma è comunque acqua, e il rischio di trasformare lo stomaco in una grossa borraccia c’è sempre. Due: sto bevendo tanta, troppa coca cola. Buona eh, fresca di sicuro. Ma la caffeina chiede un prezzo, poco da fare: e il prezzo è che la digestione si fa più faticosa e complessa. Tre: siamo al miglio 35. Da qui inizia il momento più difficile in una qualsiasi triple digit; le miglia che passano più lentamente e cominci a sentire la prima fatica vera della giornata, e quella sensazione di avere ancora tante ore davanti.

Ok, un bel respiro...e vediamo di trovare il prima possibile un buon ritmo per passare questo momento. Che poi è strano in effetti: mi sembra di andare pianissimo, di essere quasi in crisi, eppure continuo a superare gente. Segno che anche gli altri stanno avendo le prime difficoltà, ma magari pure che io non me la sto cavando poi così male.

Si arriva così in poche miglia alla Aid 5, Bignor Hill. Uff...adesso sì che è tosta. Mostruosa ingozzata di anguria, e volontari stavolta non convintissimi nel darci acqua sulla testa (una quasi incazzata, e che cavolo...fai conto che la stia bevendo, penso nel momento di massima difficoltà).

Riparto dopo un paio di minuti, e affronto il salitone di Bignor Hill appunto. Si avverte fatica, stiamo tutti cercando di passare questo momento al meglio. In più, la frustrazione nel vedere lontano, sulle colline verso Brighton, un pioggione micidiale...cavoli, quello che ci vorrebbe adesso sulle nostre teste!

E la testa in questo momento comincia a farmi un giochetto dei suoi: “Senti, ma perchè non vai fino a Washington (miglio 54) e ti ritiri lì?”. “Poi così vai dritto al cottage e ti infili in un bel lettone morbido”.

Non sarebbe male come scenario in effetti, per sfuggire a questo forno, non fosse che:

1 – Ritirarsi a Washington significherebbe aspettare lo sweaper, che passerebbe a notte fonda o quasi.

2 – Ari è a Eastbourne, a 60 miglia di distanza da dove mi trovo io, con portafogli, chiavi e tutto il resto.

3 – Quanto a logistica, è più facile arrivare a Eastbourne che ritirarsi in effetti.

E così dopo aver scavallato questa cresta infinita, arriviamo alla piana di Amberley, poco prima del miglio 50.

I miei propositi di ritiro non sono ancora svaniti del tutto nel frattempo, anzi. Va male adesso. Sto perdendo ritmo, e con esso focus e determinazione.

Due signore mi incitano e mi chiedono se va tutto bene. “Yeah” rispondo, sapendo di mentire “just a little down moment, no big deal”. Eh no cazzo, big deal. Se non succede qualcosa tra testa e gambe, per me la SDW 100 è agli sgoccioli.

Mi affianca Dave, un runner del backpack nel quale ormai credo di essere finito. Ora è lui a mettermi un braccio intorno al collo e a incoraggiarmi. “Baby steps, drink some water, reset the mind, go on”.

Sento un attimo il cellulare che vibra: è il messaggio di un amico, anzi di un fratello, che dall’ Italia sta seguendo il live tracking della gara. “Tieni duro bastardo, ci sentiamo a Eastbourne”. Gli rispondo scrivendogli che sono in un down pesante. “Passa, un piede dopo l’ altro e avanti”. 

Questo amico mi perdonerà se ho scritto qui il nostro breve scambio, ma ci tenevo comunque a dirgli GRAZIE anche da queste righe. Perchè non so perchè, ma questi due sms improvvisamente mi tirano su. E contemporaneamente, nel mezzo del nulla di questo posto del cazzo compare una fontana con acqua potabile con rubinetto invitantissimo. Mi ci butto letteralmente sotto con testa, braccia, collo e tutto il resto, e ci resto due minuti abbondanti.

Ed ecco che del tutto inaspettatamente mi sento improvvisamente rinascere. Va via la polvere di gesso, vanno via le gambe molle, va via lo stomaco pesante e vanno via pure i cattivi pensieri di ritiro. C’è speranza, mi dico. Baby steps, gli amici mi seguono da lontano. Tra qualche miglio raggiungerò Washington e da lì sarà come correre una SDW50...e poi a Eastbourne vedrò finalmente Ari. Sì cazzo, me la gioco ancora.

Supero Dave all’imbocco della salita successiva (una rampa micidiale che aveva cotto le gambe anche ad Ari quando ci è venuta in MTB al Mercoledì), e mi dice “now ya lookin’ good man, expect something special from you at the finish!”. Grandissimo, sta un po’ patendo anche lui ora, ma due parole non me le nega comunque.

Arrivo in cima. Mi guardo indietro un attimo, ancora verso questa pianura umidissima. Poi mi giro, sguardo verso Eastbourne, e ricomincio a correre.

In un attimo sono così anche al miglio 50, Kithurst Hill. Vedo la Aid Station, e stringo il pugno in una mini esultanza. Sono contento di essere tornato, deciso e cattivo. E sono passate esattamente 11 ore da quando sono partito da Winchester. Fette di anguria (stavolta non troppe) e un po’ d’ acqua, e riparto subito. Voglio raggiungere al più presto la Aid Station di Washington. Lì ho la mia mini drop bag, con calze e t-shirt di ricambio, e da lì in poi potrò finalmente correre sulla parte di percorso che conosco, e sarà insomma un po’ come essere sul proprio home turf. 

Arrivo a Washington carico, con una buona corsa e con lo spirito al massimo. Nella Aid Station sembra quasi di stare in un lazzaretto: runners ovunque, gente già ritirata e altri cucinatissimi, altri ancora con un piattone di pasta o minestra in mano.

No way, adesso sono i modalità da combattimento e so quello che devo fare. Drop bag, spalmata di crema su piedi e zone inguine, cambio di calze e maglietta, rifornimento di gel Powerbar, e sono subito fuori.

Avrò guadagnato 30 posizioni solo in questa Aid, e adesso è decisamente game on.

Raggiungo in un attimo il bellissimo Chanctonbury Ring (dove in settimana ero venuto un paio di volte per una shakeout run) e dove avrei dovuto incontrare Robert ed Emma (i ragazzi della farm) a farmi il tifo. Ahimè sono in ritardo io sulla teoricissima tabella di marcia, e loro sono già andati via. Pazienza dai.

Ma ecco che ad un certo punto sento dietro di me un motore in avvicinamento, il motore di un quad. Mi giro e...ma sono proprio Robert ed Emma (con il piccolo Tommy in braccio)! Mi fa una gioia incredibile vederli, per la prima volta nella giornata infatti vedo facce realmente conosciute.

Mi chiedono come sto e si scusano di non esserci stati al Chanctonbury, mi hanno perso per 10 minuti al massimo; sto correndo benino e di buon passo, gli dico che è stata dura ma che ora non mi ferma nessuno. E strappo a Emma la promessa definitiva di un mega barbecue celebrativo a buckle conquistata. Fanno anche un brevissimo video di questi momenti, che conservo gelosamente tra le cose più belle di questa giornata. Ci salutiamo al volo. Thanks guys, ci vediamo Lunedì alla fattoria!

Che bel pezzo questo qua. Sto andando giù veramente bene adesso, attraverso la pig farm (adesso più grande e popolata rispetto ad Aprile) e insieme con un altro runner ci diamo dentro bene fino alla Aid Station di Botolphs (che credo sia intorno al miglio 62 o giù di lì...diciamo km 100 e facciamo prima).

Ah giusto: adesso mi bagno continuamente la testa e le braccia con la soft flask dell’ acqua, ogni volta che butto giù un gel. Mi aiuta a digerire meglio, e a sentirmi più fresco e tonico.

Della pioggiona promessa e prima desiderata nessuna traccia, ma col senno di poi, è stato meglio così.

Ci siamo, tra un po’ finalmente incontrerò Luigi, che anzi mi è venuto ancora più incontro, e mi aspetta poco dopo Botolphs, al crew point di Devil’s Dyke.

Il tramonto è splendido, mi giro un paio di volte ad ammirare questo spettacolo. C’è pure un runner che sta facendo delle belle foto, e mi spiace quasi essere in mezzo, certamente gli sto rovinando il panorama. Ma aspetta un attimo...quel runner è proprio Luigi!!!

Urla di gioia, finalmente ci rivediamo cazzo! Non c’è tempo per convenevoli e coccole però, c’è da correre e anche decisi. Così iniziamo a darci bene, inframezzo la corsa solo con brevi camminate per mangiare un gel, e con due chiacchiere anche le miglia che abbiamo davanti passano più in fretta.

L'avrò scritto mille volte...quanto mi piace questa foto! (courtesy Luigi Fumero)

Passate via la Aid di Saddlescombe e la collina successiva, puntiamo decisi adesso verso la Aid dei Clayton Windmills (miglio 70 circa), i mulini a vento (di nome Jack e Jill) effigiati anche sulla buckle di finisher. 

Come, in tre righe ho nominato due volte la buckle? Ebbene sì, qui alla SDW100, in piena tradizione americana, a chi taglia il traguardo viene consegnata una splendida fibbia di metallo (no, in realtà è un gran pataccone, ma garantisco che quando la si ha in mano, sembra di possedere la cosa più bella del mondo). “One day” per chi chiude under 24h, e “finisher” per tutti gli altri. Un motivo in più per arrivare a quella dannata pista di atletica a Eastbourne.

Ai Clayton Windmills riprendiamo anche Tim Mahoney, oltre ad un altro caro amico del SDW, Tim Cox. Triatleta, personaggio incredibile e grande saggio della corsa, lui oggi ha fatto un errore di percorso da 6 miglia abbondanti, altro che i miei 20 minuti....

Sta calando la sera ormai, ed è tempo quindi di mettere le frontali. Io e Luigi, i due Tim e una ragazza procediamo così in gruppetto, nel silenzio della notte del SDW. E’ appena diventato buio, ma sono le 10 passate comunque.

Atmosfera surreale, tutto il paesaggio sembra in effetti qualcos’altro. Attraversiamo campi e prati con milioni di pecore e alcune mandrie di mucche (e a un certo punto passiamo accanto ad una immensa ombra nera, dalla quale spuntano due occhi di fuoco alla luce della frontale: cazzo, un toro gigante. Dico solo a Luigi di non puntarlo con la frontale, sguardo basso, passo deciso e andare, prima che si svegli del tutto. Sono abbastanza tranquillo in ogni caso, specie dopo il breve corso di “relazioni personali con mucche e tori” che Robert mi ha tenuto nei giorni precedenti, portandomi con lui sul campo della sua mandria e facendomi camminare in mezzo a questi bestioni, ma non nego che ora spero davvero di non dover provare queste tecniche).

Mentalmente sono sempre abbastanza in ordine, ma fisicamente in realtà comincio a sentire la stanchezza che arriva. Un  po’ perchè è arrivato il buio, e un po’ perchè siamo in ballo da 120 km. Ovviamente ho anche già abbondantemente superato il mio limite di sempre (i 104 km della Mozart 2015), e dunque ora si tratta anche di avere a che fare con un territorio fisico e mentale del tutto inesplorato.

Patisco leggermente la discesa ad Housedean, ma la salita successiva mi rivitalizza almeno in parte. Buon segno in ogni caso, il fatto che il mio power hiking si stia mantenendo per ora su livelli decenti.

Sulla discesa cementata successiva alla Stump Bottom però, comincio però davvero a far fatica. La discesa verso Southease è lenta e impacciata, e comincio inoltre a sentire due segnali non proprio ottimali: nausea e bisogno impellente di un bagno.

Per fortuna la Aid di Southease (che nelle SDW50 ha sempre rappresentato il mio trampolino di lancio verso la fase finale della corsa) è provvista di tutto il necessario.

Ci metto qualche minuto a trovare la toilette, con un po’ di sconforto e smarrimento (altro brutto segnale: sto perdendo lucidità), ma poi solo sollievo, per fortuna.

Certo, sto perdendo adesso molti minuti (cosa dicevo prima del fermarsi il minimo indispensabile alle Aid stations...?) ma questo tutto sommato è il minimo indispensabile, almeno in questo momento.

Inoltre la temperatura si è abbassata, e parecchio. Così, prima di iniziare il mega salitone della Itford Hill, chiedo a Luigi ancora una pausa (povero Lu, mi sta sopportando come il migliore dei pacer possibili) per levarmi la t-shirt e indossare il base layer a manica lunga di riserva (NON quello del mandatory gear ovviamente, che si deve mantenere intatto fino al traguardo) che sto portando nello zaino già dalla mattina. 300 grammi in più sulla schiena, che però mi hanno salvato nel momento di massima difficoltà.

Sì lo ammetto, sono di nuovo in crisi adesso. Con le ultime forze di power hiking riesco però a scalare la Itford Hill e a raggiungere prima dello scollinamento un gruppetto di 3 runners (due tizi e una ragazza) che stanno camminando in fila indiana.

E’ stata la mia fortuna.

Infatti improvvisamente è sceso un nebbione micidiale. Nel buio, con la nebbia, in mezzo a una collina gigantesca, dove puoi solo seguire la traccia di erba più schiacciata e segnata dal passaggio di chi ci ha corso prima.

E così, per le successive 5-6 miglia, 5 luci frontali una dietro all’ altra attraversano questo mondo surreale, a passo di marcia (il primo della fila è il pacer del secondo, e conosce il percorso alla perfezione).

Non vedo nemmeno il trasmettitore che solitamente anticipa la discesa su Afrilston, dalla tanta nebbia che c’è. Mi si chiudono gli occhi dal sonno, e cerco il più possibile di stare focalizzato sulle caviglie di quello che mi sta davanti, che a volte è proprio la ragazza, altre le gambone infinite del buon Luigi.

Però nonostante stiamo camminando ormai da quasi un’ora, ci accorgiamo che in pratica non ci ha superato nessuno (forse due runners al massimo): segno che anche dietro si sta facendo fatica adesso. E in più facciamo anche incontri piuttosto strani: tipo un runner che si sta allenando e che corre in direzione opposta, così nel mezzo della nebbia e della notte, e che ci incita. O un paio di biker, anche loro sperduti nel nulla e felici di esserlo.

E proprio in prossimità della discesa intanto (cementata anche questa), ci accorgiamo di aver lasciato indietro i tre tizi. Grazie ragazzi, senza di voi starei ancora a camminare nel mezzo del nulla.

Nuovo piano strategico per me  e Luigi; vogliamo arrivare alla Aid di Afrilston, e lì goderci un bel tea caldo, con calma, con tanto di biscotti al cioccolato, se ci sono. Infatti non sto mangiando ormai da parecchio, e ho bisogno adesso di calorie vere, non di merda plastificata.

Entriamo così nella chiesetta di Afrilston. Ci sediamo e sorseggiamo il tea, poi Luigi mi chiede se ho voglia di continuare a sorseggiare mentre siamo già fuori.

Alla grande. Usciamo, un po’ a malincuore lasciamo il calore di questa magnifica Aid station, e continuiamo la nostra marcia verso la Windover Hill, la mega collina che separa Afrilston da Jevington.

C’è ancora nebbia, saranno forse le 4 del mattino, ma l’ alba sta arrivando in effetti. E il saggio Luigi mi ricorda che con la luce del mattino anche il mio corpo avrà una sorta di risveglio, e che mi sentirò meglio piano piano. Non ci credo tanto sul momento, ma ormai sono quasi a un punto di esaurimento totale. Le mie difese emotive minime sono a pezzi, ogni cosa che mi viene detta può esaltarmi all’istante o deprimermi in maniera irrimediabile.

Pausa pisciata (l’ennesima) e poi giù nel bosco. Che pizza, penso tra me e me, adesso c’è ancora un pezzo del cazzo, poi il bosco che rompe i coglioni, ecc....

Siamo fuori dal bosco intanto e...aspetta, cavalli, case...ma questa è Jevington! Vuol dire che il pezzo del cazzo è già passato (o lo abbiamo percorso senza accorgercene), e soprattutto vuol dire che siamo più vicini al traguardo di quanto sembri. Da qui saranno 4 miglia forse....

Saltiamo decisamente la Aid station di Jevington, salutando solo al volo i volontari.

Luigi mi guarda e mi fa:”...beh, 23 ore adesso...le 24 ore non sarebbero impossibili, se solo ti sentissi di correre....”. In effetti avevo accarezzato nei mesi precedenti l’idea di un sub-24, ma per la mia prima 100 miglia mi sembrava comunque un sogno esagerato, impossibile.

Silenzio....”io ci provo” gli rispondo. E piano piano provo a correre. Non corro da due ore e passa, e in quelle due ore non mi è mai venuto neppure in mente di provarci, tanto avevo le gambe demolite e il morale a pezzi.

All’inizio è un po’ strano, ma meglio di quanto pensassi. I muscoli e il respiro sembrano rimettersi in moto piano piano.

Poi il piano piano diventa una leggera corsetta. Arriviamo così all’ imbocco dell’ ultima salita: adesso andiamo su decisi, di power hiking puro, cattivo e disteso.

Luigi davanti: “guardami le caviglie” mi dice.

Adesso non accarezzo più i fiori. Non corro più con il sentiero. Adesso sono incazzato nero, contro tutto e tutti. Vediamo chi è più figlio di puttana, io o il SDW. E i miei inviti a Luigi nei giorni precedenti a non guardare troppo il suo Garmin, a goderci la corsa, e tutto il resto....ora sono domande secche e chiare “a quanto andiamo?”, “quanto manca?”, rivolte di continuo. 

Incredibile, da pelle d’oca se ci penso ora mentre scrivo: siamo io e lui, e ci stiamo mangiando questa collina a velocità supersonica.

Siamo in cima adesso, siamo a quel miglio 97.

Il trigger, le frecce fluorescenti sul terreno....e infine la svolta a sinistra: 23 ore e 15, comincia la picchiata verso Eastbourne.

“GAS LU’, GAAASSS!” grido al mio inseparabile e fantastico pacer. E lui esegue. Aumenta sempre di più, la discesa scorre veloce sotto le nostre falcate. Facciamo anche un errorino stupido, percorrendo per qualche metro un canale superiore. Ma poco male, in un attimo siamo di nuovo sulla traccia giusta.

Oggi questo sentierino (che in Aprile è sempre bagnatissimo e fangoso) è secco e velocissimo. Una goduria vera, non l’ho mai corso così veloce, neppure al termine delle due SDW50 che ho corso finora. Luigi mi dirà poi che stavamo scendendo a 6:00/km e qualcosa sotto. Sì, non sarà un granchè, ma alla fine di una 100 miglia ti sembra di volare.

Ci sono anche due cani a ostacolarci per un attimo, Luigi sembra esitare un secondo, così passo davanti io e gridando due vaffanculo decisi ai cani e alla padrona (che risponde chissà che cosa) mi faccio strada nel sentiero (ps: amo gli animali, ma in quel momento avrei sfanculato anche un gruppo di Orsoline in gita).

Planiamo su Eastbourne, ultimo tratto di sterratino leggero e poi siamo sulla King’s Lane che porta verso la pista di atletica.

Aspetta un attimo: runners ahead! Cazzo, tutto avrei pensato tranne di dovermi mettere a gareggiare al 99esimo miglio!

Luigi davanti, io a mordergli le caviglie, passiamo la rotonda dell’ ospedale e ci buttiamo sulla pista ciclabile.

Manca ormai forse mezzo miglio al traguardo (800 metri al massimo). Passiamo i tre runners a velocità tripla, e appena ci rimettiamo a macinare, succede qualcosa di incredibile.

Stiamo andando a 5:30/km forse, qualcosa di più. So solo che stiamo andando forte, molto forte.

Eppure improvvisamente, non so neppure io il perchè, mi affianco a Luigi e di fatto lo supero, piantando una accelerata senza senso. La cosa strana, indescrivibile ed emozionante in quel momento, è che non sento nessun tipo di fatica. Mi sento improvvisamente leggero, leggerissimo, e velocissimo.

I piedi non fanno male, appena sfiorano il terreno. Le gambe sono belle tirate e il passo è lungo e disteso. E’ come se stessi vedendo me stesso che corre su questa cazzo di pista ciclabile, da un punto di osservazione esterno.

E’ questo, è forse questo che Scott Jurek descrive come satori (adattando alla corsa un concetto figlio della cultura del bushido di tradizione giapponese)? Quella dimensione di sospensione della fatica, quando tutto improvvisamente rallenta, e tu ti senti insomma “in the zone”...?

Credevo si trattasse più banalmente di “gioia della corsa”. Credevo di averlo anche già provato in passato. Immaginavo che fosse qualcosa che senti in una beatitudine da bel paesaggio o bello sforzo...eppure io sono qua, su una cazzo di pista ciclabile, demolito ed esausto dopo un viaggio di quasi 100 miglia...nessuna poesia, nessuna estetica...solo....questo sentimento di invincibilità e di totale assenza di sforzo.

Passa presto. Molto presto. Ora c’è da fare l’ultima curva a sinistra, e da entrare finalmente sulla pista di atletica per il glory lap.

Stretta di mano con Luigi, che mi affianca per tutto questo giro. Ecco, dovrebbe essere un glory lap....in realtà è una corsa folle, fortissima (almeno a me sembra fortissima), urlando come un pazzo proprio in stile Scott Jurek. Anche di questo momento esiste un video, cortesia di Luigi, che però conservo altrettanto gelosamente – no, è che mi vergono come un pazzo in realtà.

Piombo sul traguardo e travolgo letteralmente la povera Nici Griffin, che come al solito dispensa abbracci e coccole in quantità.

23 ore e 35 minuti dopo la partenza da Winchester, ho raggiunto la più bella finish line che potessi sognare.

E sì, ho raggiunto anche lei, la belt buckle. La mia prima belt buckle. 100 miles, one day.

Adesso abbraccio Luigi, ci facciamo una foto impropronibile con me distrutto e lui freschissimo come appena partito, non capisco più un cazzo.

Ormai è solo tempo di buttarsi sotto una doccia a temperatura magmatica, e di spararsi un panino con sausage gentilmente offerto dai Centurions.

Sto crollando ormai. Riesco solo a salutare Luigi, che va a riprendersi la macchina per tornare a casa, e a crollare con il sacco a pelo sul pavimento, ovviamente nel posto più freddo ed esposto a corrente di tutto l’ edificio. 

Non sono l’ unico comunque, e sembra davvero di stare in un qualche ospedale da campo. Io, la mia maglia di finisher, e la mia buckle nuova di zecca.

Dopo un paio d’ore arriva anche Ari: l’abbraccio che ho sognato di più nelle ultime 24 ore. Poi due chiacchiere con Tim Cox (mi ha dato un’ora abbondante alla fine, brutto figlio di buona donna) e cazzeggio massimo in compagnia di Gareth, un veterano della marina militare, vegano e con tante di quelle storie di vita da riempirci delle giornate intere.

A mezzogiorno scadono le 30 ore, ma ecco che poco prima si sentono applausi e incitamenti. Sta arrivando un runner. Anzi, una runner. Sì, lei, la signora con la IT-band issue! Aveva una fasciatura migliore di quella che le avevo visto alla mattina, e un sorriso infinito....la chiamo e le dico “visto, l’ho sapevo...!”...lei mi guarda e mi fa...”yellow shorts!!!”. Sì, proprio io, quello dei pantaloncini gialli. E’ contentissima, ci abbracciamo forte. Ce l’ abbiamo fatta entrambi!

Tempo di shuttle bus ormai. Ci avviamo a passo di lumaca nel parcheggio, e poi finalmente sarà viaggio di ritorno, e meritato riposo.

A Winchester devo solo più riprendere la macchina, e fare rotta verso l’ albergo.

E così, tardo pomeriggio della Domenica, io e Ari siamo di nuovo in stanza, letteralmente demoliti, ma entrambi felicissimi (il suo sostegno è stato sempre fondamentale, ogni singolo giorno da quando ho deciso che avrei corso questa bestia di gara).

Panino gigante e poi a nanna. Crolliamo così entrambi in un sonno profondissimo.

Il dopo....

La mattina dopo una buona colazione fa da preludio a una giornata di turismo a Winchester (la cosa ideale dopo una 100 miglia, per davvero: passeggiata migliore di un qualsiasi massaggio). Cittadina carinissima, con una cattedrale splendida. Piena di storia (Ari è appassionata di storia inglese, specialmente dell’ epoca Tudor) e bei negozietti.

Incursione in libreria, e poi finalmente ce ne torniamo al nostro cottage.

I giorni successivi sono così trascorsi tranquilli, con il promesso barbecue a celebrare due settimane fantastiche, con qualche gita e tante passeggiate. Al Mercoledì mi sentivo già di nuovo in ordine, e sono contento di come è andato il recupero in generale.

E alla Domenica poi è venuto il tempo di tornare a casa (stavolta abbiamo viaggiato di giorno).

Ed eccomi qui...

Ecco appunto...eccomi qui, nel momento più difficile di quando si scrive un minestrone come questo (ma davvero siete riusciti a leggerlo tutto?!): trovare il modo di finire.

Dovrei forse parlare dei materiali utilizzati? Ok, facile. Le solite cose, già provate e strapromosse alla SDW50.

Scarpe: LaSportiva Helios I. Stavolta, di un mezzo numero più lunghe, per ovviare a qualche problemino di spazio riscontrato con il primissimi paio, e avere più room per i piedi in previsione di una distanza due volte più lunga. Perfette, sempre. Piedi intatti, a parte una piccola vescica sul tallone causata dal non aver voluto togliere subito un sassolino che si era infilato nella scarpa, e l’unghia dell’ alluce un po’ nera, per una puntata di piede su uno scheggione di gesso prima di Washington. Due errori di navigazione del terreno, niente da imputare quindi alle scarpe.

Zaino: Salomon Sense Ultra Set 3 lt, edizione 2016. Rispetto all’edizione 2015, che ho usato alla SDW50, i ragazzi di Salomon hanno messo a posto finalmente la questione “tasche delle softflasks” concedendo più spazio ed elasticità. Adesso è proprio lo zaino perfetto.

T-shirt Patagonia Capilene I (entrambe quelle utilizzate) e pantaloncini LaSportiva Pace Shorts (che differenza con i Kalenji a cui ero abituato, e comunque hasta giallo banana siempre!), e calzini Injinji, con il primo paio più “basso”, e il secondo (quello usato da Washington) con maggior protezione alla caviglia (per evitare appunto stress da freddo e sassolini).

Mangiare: solita dieta di Powerbar gels. Deludenti stavolta i wafer, che probabilmente hanno contribuito ad alcuni problemi di digestione (specie durante la prima crisi ad Amberley). Perfetti per la bici, meno per la corsa (parlo per me ovviamente). Qualche powershot. Tanto Gu Brew (il SDW ti asciuga come pochi, causa vento), dosi non certo omeopatiche di coca cola (all’inizio, poi mi sono calmato) e di frutta fresca (quasi troppo come dicevo prima, ma lunga vita al watermelon!).

Che posso dire ancora: che correre una 100 miglia è una cosa bellissima. Nei momenti belli come in quelli difficili. E’ una cosa che ti cambia per la vita? Ancora non lo so, magari sì. E’ davvero la sintesi di una vita in una giornata, come dice Ann Trason? Uhmm, considerata l’ attendibilità dell’ opinione, direi di sì, ci può stare.

Di mio posso dire che pur nella sua grandezza e complessità e infinita bellezza, si tratta pur sempre di una corsa. E questa sua semplicità, unita al fatto che sia forse la cosa più effimera, fluida e “trasparente” che può esserci (ecco perchè è così difficile scrivere un race report come questo...tornare su momenti passati non è la stessa cosa che vivere quei momenti nel presente) la rende se possibile ancora più bella.

Correrò ancora una 100 miglia, eccome. Perchè mi sono divertito, perchè ho scoperto che questa distanza mi piace un casino, e perchè voglio cercare ancora quel limite, quell’ istante, quel momento di pura gioia di correre. 

E voglio cercare ancora la fatica, e la soddisfazione di uscirne fuori più carico e determinato di prima. Perchè così come devi correre “con” il sentiero e non contro di esso, in una 100 miglia devi correre anche “con” la fatica e non contro di essa. Desiderarla, amarla, farla tua, goderne ogni istante. Perchè è in quel momento che ti accorgi che stai cambiando, che stai crescendo, come runner e soprattutto come persona.

E ora sì che è davvero tutto. Prima però, vi beccate qualche ringraziamento, che mi sembra il minimo.

GRAZIE a Mr. Luigi Fumero AKA Gigetto. Pacer extraordinaire. Non basterebbero tutti i blog del mondo per far capire quanto sei stato fondamentale. Senza di te non sarei mai riuscito a raggiungere Eastbourne. A buon rendere fratello (anche se per fare il pacer a te, mi ci vogliono almeno 8 anni di speedwork intensivo!).

GRAZIE a James Elson e a tutta la Centurion Running. Ancora una volta una organizzazione al top.

GRAZIE a tutti gli amici incontrati sul SDW. Runners e volontari, e pure i cari Robert ed Emma. Fantastici, sempre col sorriso.

GRAZIE a tutti gli amici e fratelli che da lontano, con un pensiero o un sms, mi hanno fatto sentire il loro tifo e sostegno. A chi ho rotto le palle per tutto l’ anno con mail fastidiosissime e domande idiote, e a chi viene regolarmente qua sopra a leggersi le mie stupidate.

E infine un GRAZIE grande come il South Downs Way a te, che ci sei sempre (anche se non vuoi mai apparire). Che mi sopporti in queste follie totali. Che ti prendi le mie giornate buone e quelle in cui sono del tutto intrattabile, le mie ansie e manie, i miei momenti di esaltazione e quelli di depressione. Che mi spingi sempre a cercare quel qualcosa dentro di me, quella goccia di sudore in più. Questa buckle è anche tua.





Arrivederci South Downs Way. Ci rivedremo, un giorno. 


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